Coronavirus, chi sta a casa, malato o no, non è “appestato”

Essere a casa in “quarantena” non è un reato, non è una macchia d’olio sul vestito buono, non è una riga sulla fedina penale, né una vacanza pagata alle Maldive. Specie se non stai male, specie se non sei positivo al Covid-19 (Coronavirus).

A Orvieto, così come in molte parti d’Italia, si crede che colui o colei che viene messo, o che si mette da solo, in isolamento fiduciario a casa, sia un appestato da cui stare lontanissimo, uno o una di cui va fatto nome e cognome perché “hai visto mai l’ho incontrato”. Si cercano nomi, indirizzi, parenti, amici, il tutto per affibbiare una bella X rossa sulla persona. Persona che nulla ha fatto di male, che spesso è vittima delle circostanze.

Esattamente come i medici, gli infermieri e gli operatori sanitari del reparto di Chirurgia del “Santa Maria della Stella” di Orvieto, ormai a casa da giorni per essere stati a contatto – tradotto “aver lavorato fianco a fianco” – con un collega risultato positivo. Queste persone non hanno fatto niente di male, non sono felici di stare a casa, hanno atteso con il cuore in gola il risultato dei tamponi (tutti negativi) e qualcuno non lo ha nemmeno fatto perché ritenuto non a rischio. Queste persone lavoravano tutte per noi in un reparto tra i più delicati, lavoravano normalmente insieme al loro collega quando, all’improvviso, qualcuno li ha “costretti” a stare casa. A casa, e non al lavoro. A casa con mariti, mogli, figli grandi o piccoli, genitori anziani e non. Se fossero stati ritenuti ad alto rischio, li avrebbero lasciati a casa con tutte queste persone? O forse li avrebbero tenuti in ospedale, magari tutti in un reparto, in attesa dei tamponi? Questa gente è gente che tra pochi giorni tornerà al lavoro, perché negativa, perché indispensabile, perché non sta male, perché non c’è motivo ulteriore perché stia a casa. Gente normale, gente tranquilla, a cui la positività del collega ha stravolto, in alcuni casi la vita, e che spesso si sente apostrofare da chi solo ieri era amico, conoscente, vicino di casa, “appestato”.

Tra loro c’è chi ha retto la botta senza batter ciglio e chi invece sta soffrendo per questa situazione. E certamente gli insulti non fanno che far male ancora di più. Loro che curano chi arriva con meningite, mononucleosi, o altro, loro che sono tra i lavoratori più controllati e più curati, loro che seppur stanchi, e incazzati come pochi, in tutta Italia stanno facendo turni senza orario anche per sostituire chi di loro è a casa, malato o meno.

Magari la prossima volta che andremo in ospedale pensiamoci che coloro che ci aiutano sono anche quelli che abbiamo denigrato, preso in giro, additato, quelli che per lavorare “fianco a fianco con” abbiamo definito “appestati” e nonostante questo non sbaglieranno a prendere la vena, non sbaglieranno a leggere le nostre analisi o il nostro elettrocardiogramma.

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