Quale futuro per CRO e per la città, la grande sfida che non si può perdere

Marcia a tappe forzate il processo di riorganizzazione all’interno della Banca Popolare di Bari dopo il commissariamento di dicembre e gli arresti degli ex-vertici dell’istituto pugliese.  I commissari stanno sistemando il bilancio mentre si avvicina la scelta del nuovo dg della banca che dovrà poi gestire la delicata fase del risanamento.

Sul gruppo permane l’incertezza anche per quanto riguarda il prossimo futuro di CariOrvieto.  Venerdì 14 alle 10,30 si riunisce la commissione capigruppo in Comune per l’audizione di Marco Fratini, rappresentante dell’Ente nella Fondazione CRO, così come deciso nell’ultima seduta del consiglio comunale dello scorso 30 gennaio.  Per l’istituto orvietano sembra che i commissari non abbiano ancora definitivamente deciso tra vendita o mantenimento ma con fusione.  Questo è il vero dilemma che potrebbero lasciare in eredità al nuovo direttore generale della banca.  Per la vendita l’unica offerta è sempre quella del fondo francese Argenthal, tramite la controllata Alkemia, e il finanziere Gallazzi per un totale di 55 milioni di euro.  Sui possibili acquirenti si è alzato il fuoco di fila della politica che ha chiesto ad alta voce che si vigili.  Addirittura c’è chi in consiglio comunale ha sottolineato la mancanza di un bando di gara, dimenticandosi che si tratta di una società privata senza alcun obbligo se non quello di sottostare alle normative vigenti e al controllo e vigilanza di Bankitalia.   Certamente c’è chi storce la bocca perché nella compagine non vi è alcun partner industriale, ma l’ultima parola spetterà, nel caso, a Bankitalia che dovrà farsi perdonare i troppi errori di gestione del passato sull’intera questione della PopBari e che sicuramente farà le pulci alle risorse e al piano industriale che presenteranno a operazione conclusa, non prima.

L’altra strada percorribile porta CariOrvieto direttamente in Popolare di Bari con quel processo di fusione che più volte nel passato è stato bloccato dalle resistenze della Fondazione CRO che, come spesso sottolineato, ha diritto di veto.  Oggi però la situazione è ben diversa.  La capogruppo è commissariata ed ha necessità di migliorare i ratios patrimoniali.  Secondo indiscrezioni il valore di CRO dentro Bari porterebbe ad un miglioramento di circa 0.75 punti percentuali dei principali indici, un piccolo per l’istituto pugliese ma soprattutto un bel segnale per eventuali investitori interessati.  Sì perché nel possibile nuovo risiko bancario c’è dentro Popolare di Bari anche per utilizzare il credito d’imposta sulle fusioni nel Mezzogiorno che scade a fine anno.  Non solo, Bankitalia deve sistemare diversi dossier aperti, da MPS a Carige e vuole farlo in fretta anche perché la congiuntura economia non è esattamente delle migliori.

In tutto questo magma CRO rischia di rimanere stritolata e la politica continua a chiedere interventi che sono ben lungi dalla realtà.  E’ vero, la Costituzione parla di “tutela del risparmio” ma nel recente passato (Veneto Banca, BPVicentina, Banca Etruria, MPS, Tercas) le tutele sono arrivate con provvedimenti ad hoc e non collimanti con le perdite lamentate dai risparmiatori-azionisti.  Si chiede che faccia sentire la sua voce il sindaco, giustamente, ma lo deve fare senza invasioni di campo e tutelando gli interessi del territorio.  Il primo cittadino di Teramo, ad esempio, ha riunito le forze sociali intorno ad un tavolo con i politici del territorio per chiedere a gran voce la tutela dei risparmiatori e dei dipendenti.  A Orvieto ci sarebbe la carta Fondazione che però, in verità, a parte le scaramucce con la PopBari non ha brillato per proposta.  Sì, ha lanciato la provocazione dell’acquisto della banca sapendo bene di non poterlo fare visto che più di un terzo dell’attivo patrimoniale non può essere investito in un solo asset, quello che sarebbe avvenuto nel caso ventilato.  Non ha mai pensato ad una fusione, a posteriori c’è chi dice giustamente, ma invece dall’interno avrebbe potuto contare di più ma soprattutto avrebbe potuto riunire i tanti soci umbri in occasione delle assemblee plebiscitarie in favore della famiglia Jacobini.  Con la fusione avrebbe potuto contrattare sulla presenza di uffici e investimenti ad hoc per il territorio, niente, solo una lunga e carissima, in termini di consulenze, guerra contro l’azionista di controllo, bello o brutto che sia.

Alla fine cosa si ritrova Orvieto?  Quasi un pugno di mosche.  Si trova una banca che ha chiuso il bilancio 2018 in perdita, seppure per voci non ricorrenti e svalutata nel portafoglio della capogruppo, e in quello della Fondazione?  Si ritrova con la possibile cessione della CRO ad un fondo sicuramente speculativo che metterà al centro la redditività aziendale.  Si trova soprattutto con meno risparmio disponibile sul territorio in un momento di particolare crisi e con il grande punto interrogativo sul futuro del personale e delle agenzie.  Rimane l’ultimo interrogativo: la banca di territorio?  Bisogna prima intendersi sul territorio e non in senso geografico o culturale, ma in senso economico.  Orvieto non è un territorio ma se allarghiamo lo sguardo all’intera provincia di Terni allora il discorso cambia.  Le BCC si sono allontanate per quanto riguarda i centri decisionali, CARIT è del gruppo Intesa e Orvieto permane come piccolo presidio local, anche se controllato e coordinato da un altro gruppo. BPBari, ora rinnovato, potrebbe essere un’opportunità come modello di banca locale ma a risanamento avviato.  L’altra strada è quella dell’indipendenza scommettendo sui nuovi proprietari sullo sviluppo, sulle produzioni, sul know-how presente in un territorio vasto che necessariamente non può fermarsi a Orvieto e orvietano, ma andando fino a Terni e parte della Tuscia, riprendendosi quel ruolo di protagonista che ora non ha.

Per giocarsi questa partita istituzioni, politica, imprese, sindacati devono tutti remare da una parte, quella dell’interesse della città che potrebbe ritrovarsi protagonista delle scelte economiche di un territorio ampio, difficile, complesso ma potenzialmente ricco di opportunità.  La Fondazione potrebbe essere l’interlocutore privilegiato del territorio come socio di minoranza pronto a supportare l’azionista di maggioranza e a controllare che non venga consumata macelleria sociale su Orvieto, magari sottoscrivendo accordi ad hoc in accordo con la città e soprattutto con il tessuto imprenditoriale locale.  E’ una sfida difficile che può essere lanciata e vinta in ambedue i casi ma solo se poi i processi vengono governati e gestiti nell’esclusivo interesse della città tutta.

 

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