Banca di Territorio, ma quale? La Fondazione faccia presto senza nuovi litigi con il socio di maggioranza

Abbiamo atteso il bilancio di CRO e poi la lettera del presidente della Fondazione CRO, azionista di minoranza della stessa banca.  I numeri lasciano poco spazio alla fantasia.  E’ vero il rosso si è fermato sotto la soglia psicologica dei 10 milioni di euro, per la precisione a 7,8 milioni ma pur sempre tanti, troppi.  E’ vero la crisi economica morde ma parliamo del 2019, quando i bilanci di molti istituti di credito hanno assistito ad un forte miglioramento delle performance e contemporaneamente i board hanno presentato pesanti piani di ristrutturazione sia dal punto di vista delle filiali che del personale.

C’è un progresso, non si parla più di argenteria, di gioiello quando si cita CRO, perché effettivamente non lo è.  Certamente presidia territori interessanti ed è ben radicata in un’area, quella della Tuscia, che nel passato ha attirato gli appetiti di molti istituti di credito.  Quelle 50 filiali circa della CRO facevano gola.  Come non ricordarsi l’ultima asta che ha visto vincitrice proprio la Banca Popolare di Bari su Tercas e Banca Etruria, poi finite miseramente.

Spicca la definizione di “banca locale” nella lettera del presidente.  No, locale significa un piccolissimo istituto che non guarda oltre il Paglia e il Tevere; la CRO a onor del vero non è questo. Di banche locali, salvo qualche limitatissima eccezione e di lunga tradizione ormai non ne esistono più perché anche quelle BCC che spesso vengono portate ad esempio di banche di presidio ora sono parte di gruppi ben più strutturati.  Allora torniamo al Territorio.  La CRO è istituto del Territorio.  Certamente se per territorio intendiamo un’entità culturale e storica, ma qui vale il significato economico e allora la cosa cambia.  Il Territorio non ha reti materiali e immateriali all’avanguardia, non ha l’Alta Velocità, non ha un ospedale specializzato, non ha reti industriali e produttive ampie, ma una gran quantità di micro e piccole imprese che sono le prime ad entrare in fibrillazione nei momenti di crisi, figuriamoci ora.  Non ha servizi turistici di alta e altissima qualità, fatti salvi rarissimi esempi.  Insomma non è un territorio economicamente definito e la politica, da troppo tempo non ha mai pensato di guidare un processo che portasse Orvieto ad essere capofila di un costituendo territorio, distretto, cluster, chiamatelo come volete.

C’è poi la peculiarità del comparto bancario che vivendo una nuova rivoluzione, un po’ come quella vissuta, facendo i debiti rapporti, con l’avvento dell’informatica.  Lì a pagare è stato esclusivamente il personale, oggi lo scenario è ben diverso.  La digitalizzazione e la “dematerializzazione” delle agenzie di cui si parla da tempo sta subendo una fortissima accelerazione nel post-covid.  Riflettiamo, a qualcuno è mancata l’agenzia sotto casa?  Si sono bloccati i servizi?  Per chi già utilizza i canali digitali la risposta è semplice: assolutamente no, nessuna differenza tra il prima e il dopo pandemia.  Bonifici, pagamenti, operazioni varie, addirittura le richieste di prestito, tutto si poteva e si può fare on-line.

Allora facciamoci la domanda che tutti cercano di glissare: ma come si può valorizzare la quota di CRO nelle mani della Fondazione?  Posto che CRO è una piccola banca, che è in atto la rivoluzione digitale per cui tutti prevedono che entro il decennio rimarranno pochi grandi gruppi nazionali e internazionali e che il valore di mercato, visti i valori cui è iscritta nel bilancio di BPBari la quota di controllo è notevolmente calato; ecco, viste le premesse anche l’offerta monstre di Gallazzi sembra di altri tempi e lontani, e invece parliamo del 2019.  Sembrano esserci investitori interessati, ma basterà?  Non è che alle prime divergenze, il socio di minoranza torni ad impugnare l’ascia di guerra contro l’azionista di controllo? E oggi siamo sicuri che ci sia qualcuno interessato a investire denaro in un settore che registra margini risicati e che non da più valore alle agenzie, che anzi sono costi?  Per valorizzare la partecipazione non si potrebbe esaminare l’idea di entrare in un gruppo strutturato, forte e lì presidiare il “territorio” tramite accordi?  O ancora, entrare nella nuova BPBari a controllo di fatto pubblico, con tutte le cautele del caso, e lì giocare il ruolo di garante dei tanti piccoli azionisti che sono rimasti nell’istituto pugliese?  Perché non trattare le condizioni e le contropartite tecniche e occupazionali per Orvieto?

Insomma, non c’è tempo per creare un territorio in senso economico-finanziario anche perché la crisi da covid sta mordendo profondamente e allora bisogna avere un occhio attento al portafoglio perché la Fondazione è importante per la cultura, l’arte, la salute, la sanità e per eventuali accordi di vantaggio tra imprese, famiglie e l’istituto di credito, perché chiunque avrà il controllo svolgerà il ruolo di banca con tutte le regole, i paletti, le attenzioni che tale ruolo richiede, senza fare sconti, se non quelli garantiti da accordi tra più parti.  Facciamo presto che il futuro è dietro l’angolo e il treno dello sviluppo e dell’attenzione per Orvieto non possiamo perderlo questa volta.

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